Il Cielo d'Ungheria

Le peregrinazioni e i pensieri di un Ingegnere che ha deciso di vivere un pezzo della propria vita nella terra magiara del Gulyas di Buda e di Pest, del Balaton, del Danubio. A Székesfehérvár.

martedì, luglio 18, 2006

Il pensiero a Itaca.

There are no ancients before me,
No Followers behind:
Only the vastness of heaven and heart
On this mountain terrace.
Though heaven may know the ultimate,
Joy or sorrow is our own will.

Partire è un po' morire.
Partire è un po' nascere.
Partire è un po' ri-nascere.


Staccarsi strapparsi sradicarsi.

Staccarsi da consolidate abitudini.
Strapparsi da maschere ruoli pensieri-di-sé già pronti a prendere il posto del sé.
Sradicarsi da luoghi consuetudini routine torpore vita-col-pilota-automatico.

Scuotersi.
Riscuotersi.
Riscuotere il premio di cui ogni uomo è vincitore: il proprio tempo.

Prendere il largo.
Riprendere il largo e lo stretto che stanno là di fronte, e scegliere, a seconda di come lo senti dentro a seconda di come l'Onda si muove a seconda di come ti muovi a seconda di come insieme vi muovete.

Muoversi.
Ripartire.
Ritornare anche.
Per vedere casa cose ciò che è cambiato ciò che è lo stesso.

Per vedere se tu sei lo stesso.

Ritornare tornare.
Per poi preparare una nuovo fagotto carta d'imbarco cappello panama.
L'Onda che ti spinge non si placa non tace non può proprio più farlo non ora non più e ti consuma ti spinge ti manda in ucraina allo scavo greco sul mar nero e in italia e in ungheria o ovunque sia la sua destinazione non importa.
Non la destinazione conta.
Ma il tragitto.

Parti.
Torni.

Partenza-Ritorno, Morte-Nascita.

Il Viaggio.
Come la Vita.

F.



D'ora in avanti non chiedo più buona fortuna,
sono io la buona fortuna,
D'ora in avanti non voglio più gemere,
non più rimandare,
non ho più bisogno di nulla.

Walt Whitman, Canto della Strada.


domenica, luglio 09, 2006

Campioni del Mondo a Budapest.

Quando hai la febbre, ma c'è la finale.
Quando quella febbre non è nulla perchè tu devi essere lì allora prendi le medicine.
Quando arrivi l'inno in piedi urli il rigore non c'eraaa noooo ma poi il colpo di testa di materazzi, quello dato, goool, e poi il colpo di testa da materazzi ricevuto fuoooorizidaaane, qundo i rigori no i rigori no no ancora e quando abbracci gli amici ti stringi agli Italiani pensi all'Italia a casa alla tua casa la palla lo sguardo dei rigoristi lo sguardo di tutto un paese la palla dentro e manca poco una sola rete, se grosso segna.. noi siamo..

E lo siamo.
Lo siamo.
In cima al mondo.
Noi, l'Italia.

Quando poi la gioia ti scioglie qualcosa dentro senti di voler ridere piangere urlare tutto insieme e lo fai, lo fai, sotto la maglia azzurra le grida l'Inno di Mameli qui a Budapest.

Quando i Magiari per una volta non ti guardano con uno sguardo vuoto ma sembrano partecipare, i tassisti i passanti gli amici.

Quando senti che dovresti essere a casa in quel momento.
Quando ti chiedi cosa stia succedendo a casa ora.

Quando sei
Quando siete

Campioni del Mondo,
Campioni del Mondo,

Campioni del Mondo,

Campioni del Mondo!


F.

martedì, luglio 04, 2006

Mondiali visti da Budapest.

La solita maglietta azzurra, e il solito prato li' al Milenaris Park dietro a Moskva Ter, prato bagnato davanti al maxischermo, si' ci troviamo li' mi raccomando e' importante dobbiamo unirci stare insieme noi Italiani dobbiamo essere tutti insieme noi Italiani qui a Budapest, e gridare e tifare a squarciagola come se ci potessero sentire, la' lontano, dobbiamo coprirlo con le nostre voci quel commento alla partita in ungherese con la voce cosi' monotona e indifferente e che parla e dice nell'incomprensibile magiaro che il collega commentatore della televisione italiana che sta a fianco sta urlando pure lui.

La lontananza crea a volte una serie di energie forti di nostalgia affetto appartenenza vicinanza.

E allora guardare le partite del Mondiale, lontani dalla nostra Italia, da qui, dall'Ungheria, e' qualcosa di piu' che non vedere solo una partita di calcio.

Ci si riunisce, si crea una comunita', ci uniamo Little Italy di Budapest e si tifa come mai si avrebbe fatto si urla e si urla all'arbitro e Passaaa!! Tiraaaa!!


E quando giochi bene, quando la palla entra, quando Grosso e poi Del Piero ci consegnano alla nostra sesta finale, senti dentro crescere una gioia da lacrime da orgoglio da felicita' di pura appartenenza ad un popolo unico ad una terra meravigliosa e unica al mondo della quale senti di essere irrimediabilmente e profondamente innamorato.


E allora ti chiedi cosa stia succedendo a casa, si' *a casa*, forse vorresti essere li', i festeggiamenti le macchine e le bandiere e i tricolori.

L'Italia e' in Finale della Coppa del Mondo.

Capisci allora che cosa significhi la parola "Italiano-All'Estero", come tanti, tantissimi come te in tutto il mondo, sentimento agrodolce da Pasquale Ametrano con la sua Alfasud con la foto della Juve davanti al letto e i crauti mangiati di prima mattina.

Sentimento di appartenza, di orgoglio, di amore.


F.

mercoledì, giugno 28, 2006

Recinti chiusi. Recinti per cavalli.

Ho appena letto l'ultima pagina del Diario Azzurro di Silvano Agosti: http://www.byweek.com/scipioni/ita/diario27062006.asp .
Come sempre le sue immagini ed i suoi libri riescono a descrivere cosi' bene un pensiero che trovo vicinissimo al mio.

Venerdì scorso qui a Székesfehérvar tornando a casa da scuola sento parlare in Italiano in un parcheggio di un supermercato: una coppia che italianamente parlava a gran voce mettendo la spesa nel bagagliaio.
Mi avvicino con due occhi cosi', quelli mi guardano pure loro, e io attacco bottone, e scopro che vivono in un paesino qui fuori alla cittadina magiara. Lui ingegnere, della provincia di Bergamo, è venuto qui a lavorare alla IBM per la prima volta nel 97, lei di Milano.
E da 7 anni hanno deciso di vivere nella pianura ungherese.
Lui non lavora più all'IBM. Si dedicano entrambi alla loro passione: i cavalli. Ne hanno 2, madre e figlio, un piccolo ranch, e lui è tutto abbronzato e con lo sguardo *vivo* lavorando coi cavalli tutto il giorno dentro il recinto e fuori, e lei parla di come la cavalla si comporta e pensa e galoppa e ne parla con una passione che le fa brillare gli occhi.

E mi dicono che in Italia non si puo' piu' fare, che avere una fattoria è una cosa da pazzi o da ricchi e c'è sempre di mezzo il denaro, e solo quello.

Mi dicono che qui, qui si può ancora vivere.

Qui si può ancora vivere.

Mi fa pensare questa cosa.

Mi invitano a casa loro e ci salutiamo e ho il sorriso sulle labbra, come sempre quando ci si scambiano energie positive, e penso, e penso che forse io non sono un futuro Pasquale Ametrano, quello di baincorossoeverdone, e che bello che era il loro sguardo il loro entusiasmo la loro energia. Abbiamo parlato per 1 ora e mezza lì nel parcheggio dello Spar.

E proprio in questi giorni mi sto chiedendo il perchè io abbia deciso di rimanere di più in Ungheria, a Budapest.

Forse qui si puo' ancora vivere.

F.

giovedì, giugno 15, 2006

Follow your Wave.

Questo è un messaggio pubblicamente privato per i miei ragazzi, ed in particolare per la 10/G.
Scusate. Bocsánat.


Sziasztok Chicos,
this message is for you.
It has been beautiful to stay with you, guys. On this other side of the desk, on the same side as well, somehow.
I really have to tell you thank you.
You learned? Maybe. I learned? For sure.

I learned something that is hard to write here. I learned to listen more carefully to my Wave.
Köszönöm.


Follow your inclinations, Chicos.
Follow your Wave.

The world outside is so big, it's incredibly big, and it's all open *to you*, dear guys.
Bring your good energies, your enthusiasm, your passions into it.
You can make the world better. You can.

You are smart and clever. And your English is amazingly good.
Use it.
Use it to communicate.
Use it to communicate with people, from other countries, from other cultures, like we did in class.

I am Italian. You are Hungarian.
English is not my language, English is not your language.
But for us it has been a *common ground*.
Not only to study in class IT, Storage Devices or CPUs, as you know well.
It was thanks to English that we could *communicate*, understand each other.
Do that.
Carry on into using this *Passepartout*, to meet people, cultures, point of view different from your own.

The world is so big.
Be open to that.
The world is open to you. But you have to be open to the world.

Be open to differences.
Know yourself, know your culture.
But be prepared to meet others. To accept them.
You will get so much. You will give so much.
Be curious. Be open. Be caring.
Giving yourself openly is not losing yourself. It's just the opposite.

Pista, Tibi, David, Zoli, David, Rita, Hanna, Zsolti, Andras.

Travel.
Pack your bag, with your things and thinking, and travel.
You will discover that Italians do not eat cats.
You will meet people, you will find out that stereotypes and prejudices are just a stupid way to simplify the world.
To close our minds.


Don't believe to "Blood-B group people" things.
Use your own head.
Be curious and make an opinion by your own experience.
Meet people.
Meet people like you.
Meet people different from you.

Open your minds.
Open the door of your home.
For people to get in.
For you to go out.

I really wish the best for you, Chicos.
You are good and smart guys.
The world is yours.
Go out to discover it.
Go out to make it better.

Follow your passions.
Follow your dreams.
Follow your Wave.

I embrace you all.
Keep in touch.

Your teacher,

Francesco.



domenica, maggio 28, 2006

Il Viaggio nel Viaggio.

Chi è in viaggio può partire.
Un viaggio dentro ad un altro viaggio.
Una partenza genera altre partenze.
Un arrivo è solo l'attesa di una nuova partenza.
Si torna a casa ma che cosa è casa.
Si parte da un punto fisso si torna in un punto mobile, si torna si parte e se stessi è casa.
Il viaggio parte da sé il viaggio è sé.

Una vita fa pensavo al fine settimana.
In un vita passata agognavo il weekend come il sollievo la fine il fine il riposo la noia lo faccio nel weekend ci sentiamo nel weekend dormo fino a tardi cinema traffico navigli fine-settimana-e-poi-inizio-di-settimana-aspettando-il-fine-settimana.
Una vita fa il fine settimana era il vadoviaperilweekend.
Ora sono già via per il weekend.
Ora sono via anche per il weekstart.

Ora parto, ora già sono partito.
Viaggio, e sono in viaggio.

Giro e viaggio, in questa terra d'Ungheria, il lago Balaton come mare zuppa di pesce Tihany la penisola verde le terme Héviz con pensionati e Giovani Pensionati e Alba Regia di Szént István e Miskolc le grotte amiche e Eger i castelli in difesa dai Turchi, e Soprom a nordovest la Fedele che scelse l'Ungheria nel millenovecentoventi e poi il sud Széged e l'università e la Tisza come una piccola Budapest e presto l'Erdély, fiera terra d'Ungheria fuori dall'Ungheria.
Giro viaggio incontro accompagno sono accompagnato insegno imparo parlo ascolto.

Sono in viaggio e vivo in viaggio, e vivo, e viaggio.
Come ogni viaggio come ogni traversata come ogni passaggio come ogni vita.
Nel viaggio parto nel viaggio torno, nel viaggio respiro nel viaggio vivo.
La strada, là fuori.
La strada, qui dentro.

F.

sabato, maggio 06, 2006

Maturità. Ballagás.

Mi sono sempre chiesto perchè si chiamino esami di maturità.

Qui gli esami sono in questi giorni, e vengono celebrati in maniera belissima ed ufficiale, ancora prima degli esami stessi.
La cosidetta cerimonia del "Ballagás", l'uscita dalla scuola.

La foto di classe è ufficiale, con il preside la vicepreside tutti i loro prof (io non insegno alle 12esime, peccato), e le loro facce serissime in posa, e questo tabellone rimarrà appeso nella scuola, sarà parte della scuola per gli anni a venire. Oltre ad essere mostrato con orgoglio per tutta l'estate nelle vetrine della città. C'è scritto: ci incontriamo di nuovo nel 2011.

Il "Ballagás", una grande cerimonia, sabato scorso, nel campus della scuola, il preside, l'inno nazionale, i prof, discorsi, i ragazzi dell'ultimo anno tutti in fila seri in giacca e cravatta. Zitti. Alcuni, i più ribelli in prima fila con la cravatta sì, però gli anfibi ai piedi.
Chissà a cosa pensavano
quei ragazzi.

E il giorno prima persino le prove della loro sfilata ufficiale (letteralmente "Ballagás"), come si vede qui nella foto, vestiti però goliardicamente da donne da carcerati da preti, festeggiando, ridendo, tutti insieme ancora una volta un'ultima volta tutti insieme, sfilando di fronte a noi.
Dopo aver cantato, la notte prima, una serenata "Szeren
ád" sotto casa dei loro prof, per ringraziarli e chissà magari anche per ingraziarseli in vista degli esami, e i prof li fanno salire a casa e da quel momento non sono più insegnante e alunni ma solo esseri umani. Fuori dai ruoli. Fuori.

Sabato mattina la mia scuola era meravigliosa, tutta addobbata a festa, tantissimi fiori, ovunque, in tutte le aule, fiori profumatissimi e viola e rami di pino nuovo verde chiaro, le mamme le nonne i nonni i fratellini tutti vestiti a festa e pure io ho messo la cravatta e i ragazzi, la loro festa, la loro uscita, la loro vita.

L'usanza è che i ragazzi portino con sé una borsettina con il nome della scuola, con dentro tutto quello che potrà essere loro utile là fuori. Là fuori, nel mondo.
E tradizionalmente dentro c'è una "pog
ácsa" (focaccina) del sale (per dare sapore alla vita) una matita ed un piccolo quadernetto (per fermare i pensieri e le sensazioni) un fiorino (per comprare il pane ed un tetto).
Tutto quello che serve, là fuori.


Tutto questo, prima degli esami.

Gli esami.
La notte prima. Questa notte è ancora nostra.
La versione di Cicerone, le frasi fatte sul Calonghi le frasi fatte ai compagni l'aula magna il tema vagamente politico in cui dire e non dire e l'orale la tensione come mai prima il ripasso gli amici lì dietro e l'inizio, ti siedi, la tragedia di Euripide letta in metrica interpretando i tuoi stessi segni leggerissimi invisibili a matita la critica la figura di Alcesti Eracle Apollo O Dòmata Admeteì, èn oìs etlèn egò O Reggia di Admeto in cui sopportai di servire pur essendo un dio, e l'ulivo sacro, vuole un sorso d'acqua, mi danno del lei!, si grazie, ora matematica ah anche analisi matematica bene, e poi fine finito, tutto finito, finita la maturità, inizia tutto cioè, vacanza sì, l'elba, i tabelloni, e poi, e poi università ingegneria sì, e poi, e poi la vita, e la vita. Senza la borsettina.

La vita.
Cioè ora.

La maturità.
Ballagás, uscita. Inizio.
Forse, alla fine, è giusto che porti questo nome.

F.

domenica, aprile 30, 2006

Trentanni.

Vuoi aprire la porta e uscire.
La porta è lì, la maniglia, il fuori di qui, la superficie che divide il dentro dal fuori.

Ti avvicini, il dentro lo conosci.
Uno spazio familiare e rassicurante in cui se vuoi puoi dormire riposare rimanere quello che sei rimanere quello che pensi di te stesso che hai sempre pensato di te stesso.
Il dentro lo conosci bene le pareti il letto il bagaglio e tutto quello di tuo che ti sei portato dietro che sei e che sei stato e vedi vestiti cornici libri pensieri ricordi fotografie fatte rullini nuovi vestiti usati vestiti nuovi.
Il dentro sei tu.
Come sei da sempre.
Come da sempre ti pensi.
Come quella finestra che solo una parte di fuori ti mostra.

Il dentro è protezione rassicurazione possibile costruzione non-movimento ricerca limitata a quello che già c'è.
Il dentro è bozzolo.
Il dentro è non uscire.

Fuori.
Fuori da quella porta non sai cosa ci sia.
Fuori è freddo.

Fuori c'è il mondo, di sicuro.
C'è un mondo, un tuo mondo, uno dei possibili tuoi mondi.
Fuori è insicuro aperto freddo, e ti sentirai nudo non protetto staccato solo.
Fuori sarai solo.
Fuori sarai libero.

E a volte se non esci fuori non vivi.
A volte se non esci fuori non nasci.
E l'unico modo è aprire la porta la maniglia aprire la porta e scegliere di farlo questa volta a differenza di trentanni fa quando non scegliesti, l'unico modo è aprire quella porta tagliare la corda tagliare il cordone uscire ricordare da dove vieni cercare dove andrai.
Uscire.
Forse la prima cosa che farai è piangere.
Forse la prima cosa che farai è camminare.

Aprire.
Uscire.
Nascere.
Vivere.

F.

martedì, aprile 18, 2006

VicinanzaLontananza.


A volte vivi vicino, ma sei molto lontano.
A volte il tuo vicino di casa non è lontano, abita a fianco, ma non lo conosci affatto.
A volte il tuo vicino di vita, non lo conosci affatto.
A volte vivi lontano, e chi era vicino diventa più vicino.
A volte vivi lontano, e chi era lontano continua a essere lontano.

A volte ti allontani, e parti.
E allora lo vedi bene chi è vicino e chi è lontano.
A volte la lontananza dà il respiro a chi era soffocantemente troppo vicino, come due piante troppo vicine, troppo, e in due vasi diversi hanno spazio per crescere, vicine.
A volte ti allontani e chi già era lontano neanche lo nota il tuo movimento, non se ne accorge, il tuo indizzo e-mail tanto è sempre lo stesso.

A volte ti sei allontanato e basta questo a non essere più vicini.
A volte ti sei allontanato e crei un vuoto, ma quello rimane solo un bisogno da colmare. Che tu sia vicino che tu sia lontano.
A volte ti avvicini, per colmare il vuoto, ma il vuoto non si colma.
A volte ti allontani e chi ti era vicino, ti segue nei tuoi movimenti.
Anche da lontano.

A volte per avvicinarsi bisogna allontanarsi.
A volte allontandosi si perde vicinanza, si perde sì qualcosa.
Ma per capire per amare per volere a volte bisogna fare un passo indietro e guardare da più lontano le persone la tua terra la tua casa.
E allora le cose per come sono si chiariscono.
Vicine.
Lontane.
Tue.

F.


giovedì, marzo 30, 2006

Classi Vuote.

"Hello"
"ByeBye"
"SeeYou"
"Szia"


Anche l'ultimo studente esce, e la classe in un attimo rimane vuota.


L'ultimo ragazzo è uscito e tu neanche hai fatto in tempo a dirgli no dai aspetta.
Ma là fuori per loro c'è tutto il mondo e i messaggini e il pomeriggio e la vita che vive fuori da quella classe.

E allora tu rimani lì solo.

La classe è vuota.
I banchi spostati le sedie storte.

La classe è vuota.
E anche tu ti senti svuotato.
Tiri il fiato.
Ti siedi sulla cattera.


Sì ti senti svuotato di energie voce movimenti.
Hai dato tutto hai cercato di far parlare parlato corretto spiegato conoscete il protocollo di kyoto perchè cosa ne pensi nessuno sa dirmi cosa sia quello che cosa voglia dire questo sapete perchè conoscete questa parola questo verbo questo aggettivo tu che cosa ne pensi perchè.

Hai le mani piene di gesso
i jeans pieni di gesso e come le tue mani i tuoi jeans ti senti asciugato come la tua voce la tua gola le tue energie che senti che da dentro si sono trasferite da qualche altra parte e ti chiedi trasferite dove e speri che siano state energie positive e che siano arrivate a quelle menti nuove a quegli occhi addormentati attenti ridenti annoiati appoggiati al banco alle mani all'amico all'amica al bisbiglio alla risata.

Speri che le energie che non ti senti più dentro siano servite siano arrivate, e le senti ancora aleggiare nell'aria tutte quelle parole energie, che la campanella ha interrotto a metà, sono ancora lì.
E' per questo che non vuoi uscire.
Come dal letto alla mattina.

No dai, un altro po'.
No, ok, ho sentito la campanella la sveglia la campanella.
Però no dai un altro po'.

Ma la classe è ormai vuota.
E tu ti senti sedotto seduto abbandonato ingessato assetato.
Con il gesso sulle mani.

Bisogna ripulire la lavagna.

F.

venerdì, marzo 24, 2006

Movimenti Affini.

A volte ti incammini, parti, vai.
A volte senti, senti dentro, lo hai sempre sentito forse.
Hai sempre sentito quella "cosa" dentro.
Che ti spinge, ti consuma, ti mangia.
A volte parti, torni, riparti, per seguirlo quel "qualcosa", quella inquietudine.
A volte ti incammini, parti.
Parti per scavare in Sicilia per la Spagna per l'Ungheria Szekesfehervar, parti perchè proprio quella cosa non la puoi (più) ignorare.

A volte parti.
E ogni partenza è un abbandono anche.
Si parte e si lascia qualcosa.
Lo sai, ne sei consapevole, ma proprio non ne puoi fare a meno.
Ignorare quel qualcosa è ignorare il tuo cuore, e proprio non si può ignorarsi.
A volte allora parti, ti incammini.
Da solo.
Perchè ogni Viaggio, se è un Viaggio vero, è un Viaggio solitario.
Da solo e sei solo.
E ti dicono di essere folle immaturo fuori-di-testa, di fuggire, anche se tu sai che non è così.
Ti chiamano anima-in-pena, e senti di essere solo tu a sentirti così.
A girare girarsi cercare cercarsi.
Pensi di essere il solo a sentire quell'inquietudine, quel "qualcosa" che ti spinge.
Solo tu, tu solo.

Però a volte.
A volte.
A volte incontri altre anime-in-pena.
Altri viaggiatori ricercatori, che sentono dentro quel qualcosa che non può essere chiuso in quattro mura, o nascosto.
Li spinge, li muove, come muove te, come un motore, sotto il cuore.
A volte viaggi, e incontri altri che come te viaggiano.
Ed è così incredibilmente confortante sentire di non essere folli, o di non essere i soli ad esserlo.
Di non essere i soli a girare girarsi cercarsi.

A volte incontri qualcuno che come te si muove e non può farne a meno, a volte incontri qualcuno che come te è spinto a viaggiare, da un cuore che proprio non si può fermare, a volte incontri qualcuno che come te cerca qualcosa, che non sa neanche cosa sia.

A volte li incontri, ognuno il proprio giro cammino ricerca.
Movimenti affini, affinità di ricerca.
A volte condividi con loro una parte del tuo cammino.

A volte incontri, i tuoi Compagni di Viaggio.

F.

mercoledì, marzo 15, 2006

15 Marzo.

Una festa nazionale, una festa sentita, partecipata, vissuta, da tutti gli Ungheresi.

Si commemora il 15 marzo 1848, e la rivoluzione popolare dagli Austriaci.

Come noi, e le nostre guerre di indipendenza risorgimentali e le 5 Giornate di Milano, anche loro hanno avuto la loro indipendenza
dagli Austriaci nel 1848.

Solo che poi, benché più blandamente, da loro sono tornati.

Analoghe storie, analoghe bandiere.

Ma da loro una storia che non è andata altrettanto bene.

Come alla fine della Seconda Guerra Mondiale.

Dopo il loro nazifascismo (croci frecciate, terribili) però loro hanno avuto un'altra tirannia, come ben sappiamo.


La storia millenaria dell'Ungheria è segnata da isolamento (in primis linguistico), e oppressioni.
Forse è per questo che nella musica nelle parole nei visi delle persone credo di vedere una vena di tristezza, dimessa, timorosa.
Malinconica anche.


Ma oggi l'Ungheria si alza fiera e un po' timida, ma sulle sue gambe, come non accadeva da secoli, e la sua bellezza è evidente, la sera con i lampioni in ferro battuto accesi, nelle luci del castello di Buda riflessi sul Danubio, nelle vie, nei palazzi, meravigliosi, di Pest, negli sguardi dei bambini e dei miei ragazzi a scuola, che sono ragazzi come ovunque con timidezze e speranze.

Ma con vivo negli occhi e nella spilletta tricolore sul petto un forte sentimento di orgoglio nazionale, e, a differenza dei
loro coetanei di pochi anni fa, nelle mani la propria vita, la propria libertà.

F.
LIBERTÀ, AMORE!

Libertà, amore!
Voglio queste due cose.

Per l'amore sacrifico

La vita,

Per la libertà sacrifico
Il mio amore.


Sándor Petőfi (1823-1849)

venerdì, marzo 03, 2006

Tikverozés, Carnevale a Moha.

Che belle sono le tradizioni.
Soprattutto quelle legate alla ter
ra alla storia alle persone alla vita.

Che bello quando le tradizioni continuano a esistere nonostante i computer i cellulari i blog i palmari.


Che bello quando sono i giovani i ragazzi i bambini che vivono le tradizioni e le leggende della terra in
cui vivono.
Ne portano nel futuro la memoria.


E a Moha di bambini ce n'erano così tanti, perchè il carnevale è una tradizione comune a molti popoli, ma poi ognuno ha la sua particolare versione e se a Valencia c'è Las Fallas, a Viareggio i carri, a Venezia le maschere, qui a Moha, un paesino vicino a Székesfehérvár, c'è Tikverozés.

Tanti bambini, e si festeggia la fine dell' Inverno (anche se fa ancora freddo).
Tantissimi bambini, tutti con la faccia dipinta di nero, nero di fuliggi
ne, e dipinta dai ragazzi del posto che si vestono di stracci e con maschere stranissime (c'era anche un mio studente e qui ne vedete un primo piano) e vanno in giro a dipingere e sporcare con la fuliggine le facce della gente e dei bambini che ridono tanto e si rincorrono e si tirano le palle di neve, perchè i bambini sono bambini ovunque e questa è solo una meraviglia.

Una tradizione antica, molto antica, che addirittura risale alla cacciata dei Turchi dall' Ungheria, e questi strani figuri facendo versi strani vanno di casa in casa, dove i contadini e la gente del paesino li accoglie, magari offre qualche frittella (a carnevale il fritto, un'altra cosa costante), ma soprattutto dona simbolicamente delle uova ad uno dei ragazzi vestito di stracci, come buon auspicio per l'anno seguente, ed è interessante come l'uovo sia un simbolo ricorrente in tantissime culture, simbolo della vita stessa, della nascita, della rinascita.

Che bello.


Avevo tutta la faccia nera, e ho riso un sacco.


F.

martedì, febbraio 28, 2006

Giorni a Budapest.


Budapest è musica.

Ieri sono andato alla mostra di quadri di El Greco Velázquez Go
ya al Szépmuvészeti Muzeum, e nelle stesse sale del magnifico Museo subito dopo inizia un eccezionale concerto della Budapest Jazz Orchestra.



Budapest crea.

Mi siedo in un caffè di fronte alla Zsinagóga in Dohány utca, e sotto i miei occhi viene allestito un set Fotografico, luci pannelli treppiede cavi lampada l'occhio del fotografo.


Budapest sogna.

Budapest legge.

E dopo aver sognato e letto, Budapest scrive.
Come si può non scrivere, qui a Budapest.

Creare sognare desiderare sono la stessa cosa, sono la Vita stessa.
Sono il suo respiro ed il suo gusto, il sapore che senti nell'animo, il sapore della Vita stessa, quando i sogni inizi a ricordarli, quando le passioni inizi ad seguirle, quando inizi ad ascoltarlo quello che ti dice questo cielo, così blu, qui sopra di me, qui a Budapest.

F.

martedì, febbraio 21, 2006

Banchi.

Primo giorno di lezione.

Alla fine sono tornato sui banchi di scuola.
Come nei miei ricorrenti sogni.

Le sedie piccole, i banchi smangiucchiati, le scritte scavate lasciate nel loro legno (lasciare un segno , sì, non è sempre stato questo?).

Le facce attente, sogghignanti, sognanti, brufolose, le scritte sugli astucci, le felpe colorate, i visi sbarbatelli, i bisbibigli e le occhiate da un banco all'altro.
E la campanella, la lavagna, il gesso.

E questa volta, novità, la Sala Professori con una scrivania per me.
Questa volta la cattedra.
Anche il registro. Quello di classe. E quello con i numeri, quello dei brividi.
Chi lo avrebbe mai detto.

Le pareti il silenzio la testa di quello davanti, il pensiero che vola fuori dalla finestra alla telefonata del pomeriggio, a quello che lei ha detto , a quello che l'amico ti ha detto che lei ha detto, mentre la lavagna si riempie e tu fai finta di copiare sul quaderno ma invece la sola tua mano è lì, la tua mente invece sta volando .

Seduto qui, tra questi banchi.
Mi sembra di essere stato qui ieri.
Forse è così.

Anche se ora sono in Ungheria.
Anche se ora sono dall'altra parte della cattedra.

F.

venerdì, febbraio 17, 2006

La mia Budapest.

Sono sul treno, e sto tornando da Budapest.

"Com'è Budapest", mi chiederete.

Io non so se riesco a descrivere Budapest.

Non so se trovo le parole per descrivere una città splendida, maestosa, decadente, grandiosa, art-nouveau che pare Parigi.
Non so se sono capace di darvi l'idea della grandiosità del Danubio che separa Buda da Pest, i vialoni, i palazzi dell'800 di Pest.
Non so se riesco a descrivervi l'atmosfera che si respira, la voglia di tornare ai fasti ottocenteschi della "Parigi dell'Est", e di lasciarsi alle spalle il 900 come un brutto sogno, ma vivo nella memoria di tutti, e orgoglioso del suo eroico e tragico 1956 di cui quest'anno si ricorda il cinquantennale.


Non so se sono capace di darvi l'idea della *musica* che si respira ovunque, e non solo nei dintorni dell'Opera o della splendida Accademia della Musica in Liszt Ferenc ter. dove la musica classica la senti proprio per la strada uscire da quei finestroni.
Si sente, la musica, i walzer di Strauss o le arie di Verdi. Si sentono anche in mezzo al traffico. Sono lì.
Non solo perchè sono appena tornato da un coro Monteverdiano, di cui qui a fianco vedete una fotografia.
La musica, l'aria, le Arie, l'atmosfera di questa splendida maestosa orgogliosa città.




Non so se sono capace di descrivervela per come è.
Cercate le foto su Google, o meglio ancora, prendete un volo lowcost e venitemi a trovare, per vedere "com'è Budapest".
Tutto quello che posso cercare di farvi arrivare è come sia *la mia* Budapest.

F.

lunedì, febbraio 13, 2006

Il mio primo giorno a Szekesfehervar.


Sono arrivato.


Sono arrivato sabato, e ho dormito, dormito molto.
E' strano come ogni nuovo inizio, ogni nuova vita, ogni viaggio distacco rinascita implichi una sorte di morte.
"Partire è un po' morire" si diceva.

E di fatto dormire implica poi il risveglio.
E questo è metaforico.

Oggi mi sono presentato ai futuri amici colleghi della scuola dove insegnerò, in inglese, qui a Szekesfehervar (si', ho imparato a pronunciarlo il nome della cittadina). Ho finalmente una connessione a Internet.
Ho iniziato a capire che quando mi dicevano "si iu", non dicevano "see you", ma "sziu" (credo), che significa semplicemente .. Ciao.

A volte le cose difficili sono le più facili.

Fa freddo. Ma non freddissimo. Poteva essere molto peggio.
C'è neve per le strade, ma non tanta, e la primavera è alle porte, si sente, persino qui, dove il vento è più freddo, dove soffia e viene da chissà dove.
Ma la rinascita è qui, sotto la neve.

Mi sono portato un po' di libri qui con me in Ungheria.
In fondo dovrò insegnare solo 20 ore alla settimana e molti insegnanti arrotondano facendo altri lavori, e anche a me hanno chiesto se volessi magari andare a insegnare Italiano in una scuola privata qui vicino.
Ma ho risposto di no.
Non ho voglia di arrotondare lo stipendio.
Ma magari di arrotondare me stesso.

Leggerò, penso.
E scriverò, anche.

Uno dei libri che ho portato è "Il Fu Mattia Pascal".
Lo sto rileggendo.
Non so se mi sento Adriano Meis.
Di sicuro non mi sento (più) Mattia Pascal.

F.